Il Made in Italy non è solo un marchio, ma un emblema di eccellenza, qualità e identità nazionale. È un simbolo di orgoglio riconosciuto in tutto il mondo. Oggi, nel giorno della nascita di Leonardo da Vinci, si celebra la Giornata Nazionale del Made in Italy: un’occasione per valorizzare le nostre produzioni, ma anche per riflettere sull’urgenza di tutelarle.

In un contesto globale segnato da tensioni belliche, commerciali e geopolitiche, la difesa del Made in Italy non può più essere rimandata. Le nostre imprese, soprattutto le micro e piccole realtà che rappresentano la spina dorsale del tessuto produttivo italiano, rischiano di essere travolte da crisi sempre più frequenti e imprevedibili.

Il Segretario Regionale di CNA Piemonte, Delio Zanzottera, nella sua analisi sul momento storico che stiamo vivendo, lancia un appello alla politica e alle istituzioni: non possiamo più limitarci a reagire alle emergenze. È tempo di prevenire, di proteggere il nostro sistema produttivo con politiche industriali lungimiranti, capaci di garantire stabilità, innovazione e continuità alle nostre filiere, per difendere il made in Italy.

di Delio Zanzottera, Segretario Regionale CNA Piemonte

L’introduzione di nuovi dazi da parte dell’amministrazione Trump rappresenta molto più di una mossa commerciale: è il segnale di una ristrutturazione profonda delle regole del gioco economico globale. In questo contesto, le micro e piccole imprese piemontesi si trovano esposte come mai prima d’ora. L’incertezza è tornata ai livelli della pandemia, ma senza lo scudo degli strumenti straordinari allora messi in campo. Quando si rompe una filiera, non cade solo un’impresa: cade un ecosistema. Il concetto di “filiera” è spesso evocato, ma raramente compreso in tutta la sua complessità. Le nostre filiere non sono semplici sequenze produttive: sono sistemi interdipendenti, dove la perdita di un cliente a valle – magari una media impresa esportatrice – comporta effetti moltiplicatori a monte. Un dazio del 20% su un prodotto finito, ad esempio un macchinario o un accessorio moda, comporta il crollo della marginalità sull’export per l’impresa capofila, la cancellazione o revisione degli ordini per i sub-fornitori locali, la sospensione dei contratti a termine o la mancata trasformazione in contratti stabili per i lavoratori coinvolti e la perdita di valore per l’intera filiera del nostro Made in, che si frammenta e si disgrega. Nel caso del Piemonte, questa dinamica impatta in modo diretto su settori chiave come l’automotive, la meccanica di precisione, il tessile, l’agroalimentare trasformato. Si tratta di comparti ad alta densità di manodopera specializzata, spesso generazionale, non facilmente sostituibile. Si innesca quindi un effetto a catena: meno ordini, meno reddito, più vulnerabilità sociale Il rallentamento di una filiera produttiva rischia infatti di avere effetti immediati sul reddito delle famiglie. Quando un artigiano riceve meno ordini, riduce gli straordinari o rinvia gli investimenti. Quando una microimpresa deve rinegoziare i contratti, la liquidità si blocca. In poco tempo, il rischio si sposta dalle imprese ai nuclei familiari con il conseguente calo del potere d’acquisto nelle comunità locali.

Nei territori manifatturieri già fragili aumentano i ritardi nei pagamenti lungo la catena (con effetti sul credito e sulla fiscalità), si innescano fenomeni di rinuncia al lavoro, con perdita di capitale umano

Queste politiche dunque, non colpiscono solo i bilanci delle imprese ma minano la stabilità economica e sociale dei territori produttivi. E questo, in una regione come il Piemonte, già colpita da declino demografico e spopolamento industriale, rischia di accelerare fratture già in atto. È un nuovo equilibrio che va governato. Non possiamo più considerare eventi come questi come crisi isolate. I dazi, le tensioni sulle materie prime, le guerre commerciali e la transizione ecologica forzata compongono un nuovo paradigma globale: siamo in una fase di grande trasformazione degli interessi industriali, dove le regole multilaterali vengono scavalcate da logiche bilaterali e muscolari. In questo contesto, l’Italia e l’Europa devono decidere da che parte stare: o spettatori, oppure protagonisti. Servono strumenti per la tutela attiva delle nostre filiere locali, difendere il Made in partendo dalla micro e piccola impresa, un sistema fiscale e contributivo che protegga le imprese in fase di compressione della domanda estera, politiche di innovazione che non sostituiscano il lavoro artigiano, ma ne aumentino la produttività e la competitività. Difendere la micro-impresa non è una battaglia corporativa. È una battaglia per la tenuta della coesione sociale. Perché ogni bottega, ogni laboratorio, ogni partita IVA è un moltiplicatore di valore, occupazione e comunità. Quando crolla una filiera, non si perde solo PIL: si perdono persone, storie, competenze. E si produce un danno sociale che impiegheremo decenni a riparare. Come ho più volte sostenuto il tempo della reazione d’emergenza è finito. O costruiamo una politica industriale per la resilienza delle nostre filiere, e del mostro Made in o saremo costretti a raccontare l’ennesima crisi come se fosse un evento imprevisto.

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